In memoria di Leonard Cohen
Il 7 novembre 2016, a 82, se ne andava nel sonno il più grande. Uno che sperava di essere un buon poeta minore ma che si è col tempo ritrovato a essere forse il poeta maggiore per 50 anni di carriera.
Chi scrive è un suo adepto, discepolo, fan (nel suo etimo fanatic) esattamente dal 1988.
L’incontro avvenne così.
C’era il video di una canzone che si chiamava First we take Manhattan. Era in bianco e nero, e una figura maschile in cappotto con i baveri alzati era in piedi su una spiaggia deserta. Cantava di riscatto e vendetta, di amore e violenza, di alti cimenti e di piccole banalità quotidiane.
Era Leonard Cohen, cinquantaquattrenne. Era un Uomo, un Maestro.
Poi venne il disco The Future, in cui si prefigurava già quello sfascio di società in cui viviamo.
“Things are going to slide, slide in all directions/Won’t be nothing/Nothing you can measure anymore/The blizzard, the blizzard of the world/has crossed the threshold/and it has overturned/the order of the soul/When they said REPENT REPENT/I wonder what they meant”.
E per me fu una guida insostituibile per tutti quei valori maschili che qui talvolta cerchiamo di trasmettere, ben oltre il buon taglio dei nostri abiti, ma più in profondità. Molto di più. Valori come la modestia, l’ironia (e l’autoironia), il rispetto, il sacro, che alberga in ognuno di noi ma spesso si trova a essere sepolto da chilometri di farisaica arroganza.
Vivere è un lavoro sporco, e ognuno di noi porta a termine la propria missione (che abbiamo tutti marchiata sulla nostra pelle, sin dalla nascita) solo “come un uccello sul filo o un ubriaco nel coro della notte”. “Tutti lo sanno”.
Questo che segue è un pezzo che scrissi nel 2010, quando dirigevo un’altra rivista. C’era già tutto; nel mio piccolo, ho cercato di evidenziare la complessità di questo autore, che travalica i confini della musica, ma anche della poesia e delle letteratura. Bigger than life, era egli stesso un capolavoro.
Like a bird on the wire
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.
Like a worm on a hook
Like a knight from some old-fashioned book
I have saved all my ribbons for thee.
Ci sono similitudini più efficaci per simbolizzare il coraggio, la rettitudine morale, i valori, il valore dell’uomo libero, e al contempo la sua fragilità, le incertezze, i suoi dubbi, fallimenti, presunzioni, sconfitte, di queste pronunciate da Leonard Cohen nella sua canzone simbolo?
L’uomo libero non è un santo, ma un colpevole che, sbagliando e ferendo, suo malgrado, conquista la propria libertà.
“ Like a bird on the wire/Like a drunk in a midnight choir/I have tried in my way to be free.”
Ed ancora “ Like a beast with his horn/I have torn everyone who reached out for me.”
In un altro verso della sua canzone Cohen canta “ Like a knight from some old-fashioned book
I have saved all my ribbons for thee.”
Leonard ricostruisce, con poche semplici parole, tutto il fascino perduto e fuori moda dell’essere un ‘cavaliere solitario’ oggi. Ci sentiamo proprio così, vero?
Uno degli elementi più affascinanti di Cohen è che queste parole sono una diretta promanazione del suo essere. Ogni parola che stilla fuori dalla sua penna è profondamente sentita, si anima.
Quest’uomo solitario, in oltre 40 anni di carriera musicale (e 50 di poeta e scrittore), ha infranto tanti cuori, tradito molte religioni, percorso innumerevoli chilometri, vissuto varie vite. Senza mai cambiare.
Non si è mai sposato (“non ho mai incontrato la donna giusta/non sono diventato ricco/seguitemi…”, recita ironico in una sua poesia). Ha due figli. Ha vissuto da solo migliaia di notti. Il fascino non l’ha mai abbandonato.
Così come la capacità di parlare direttamente al cuore delle persone.
Se le sue canzoni ‘sono come Volvo, che durano 40 anni’, dichiarò una volta, le sue poesie e i suoi testi sono eterni, e le parole che li compongono sono univocamente ed inscindibilmente unite alla sua voce, roca e cavernosa, dolce e suadente, amorosa e profetica.
Una voce, quella di Leonard Cohen, che si è sempre levata fuori dal coro, nel segno di una autonomia che lo ha esaltato senza remore ma anche rinnegato e sbattuto nel limbo degli autori fuori moda, in cui è stato relegato per qualche decennio ma dal quale è uscito prepotentemente in questi ultimi anni.
Alcuni tour mondiali, dopo 15 anni di assenza dalle scene live, e intrapresi a pochi anni dagli 80, lo hanno trionfalmente riportato alla ribalta, facendolo scoprire alle generazioni più giovani e ri-scoprire a quelli che lo avevano messo da parte. Ma perché la figura di Cohen è così unica?
La carriera
Nato a Montreal nel 1934, comincia a comporre in versi per conquistare le ragazze. Si unisce a un importante gruppo di poeti durante l’università (McGill University) e pubblica i suoi primi libri: Let Us Compare Mythologies (1956) e The Spice Box of Earth (1961).
Queste due raccolte gli danno subito una buona fama e, grazie ad una borsa di studio, si trasferisce in Grecia, sull’isola di Hydra, per 7 anni, durante i quali scriverà Flowers For Hitler (1964) e due romanzi The Favorite Game (1963) e Beautiful Losers (1966).
Tornato negli USA, la cantante Judy Collins incide alcuni brani da lui composti, tra i quali la famosa Suzanne. L’anno seguente, Cohen firma un contratto con la Columbia e pubblica il suo primo album, Songs of Leonard Cohen. Dopodiché ne seguiranno altri 11 (escluse raccolte e concerti), 41 anni di attività musicale. L’ultimo suo libro, The book of Longing (Il libro del desiderio), uscito nel 2007, lo ha tenuto occupato per un decennio.
Tutto il lavoro di Cohen è segnato da grandi pause e lunghe assenza. Da un album all’altro sono trascorsi anche 9 anni. Questo perché dietro la sua opera si nasconde una incessante ricerca della parola giusta, del fraseggio più efficace per generare le emozioni volute, che va di pari passo con la sua irrequietezza spirituale, che lo ha portato a ritirarsi per 5 anni in un monastero buddista nei pressi di Los Angeles, dove ha seguito il suo amico e maestro Roshi. Durante questo periodo decise di adottare il nome Jikan, il silenzioso.
“Non ho mai provato, sfortunatamente, il senso dell’abbondanza, della ricchezza di parole, e mi sono dovuto accontentare semmai della ricchezza del verbo. Il destino mi ha sempre fatto avere una sola parola alla volta. Io dovevo arricchirla, riempirla di significato senza farla apparire gonfia o retorica, e poi inserirla nel giusto contesto: in un verso, in una strofa e quindi in una canzone. La mia povertà di parole mi costringe a non avere una strategia, a raschiare ogni volta il fondo del barile, a riciclare me stesso e le mie ossessioni all’infinito.”
Dopo questo lungo auto-esilio, Cohen torna a Los Angeles e ricomincia con le sue composizioni. Riunisce i suoi spiccioli di collaboratori e sforna Ten New Songs nel 2001, un disco dalle atmosfere cupe, in cui ogni elemento, dai testi alla musica, è volutamente scarno, profondamente influenzato dallo spirito zen .
Tre anni dopo incide Dear Heather, che nello stile è la copia musicale del Libro del Desiderio: una serie di appunti, scarabocchi, idee e riflessioni che ha raccolto negli ultimi decenni e mai pubblicati.
Il 2008 è l’anno più atteso, giacché, come abbiamo detto all’inizio, Cohen ha intrapreso una lunga tournée mondiale, che lo ha gratificato con una successo.
Tanto per rendere l’idea del suo successo, mai di massa ma sempre elitario, beninteso, diciamo solo che le sue canzoni hanno avuto ben 1500 cover (dal francese al polacco, dallo spagnolo all’italiano). Hallelujah e Bird on the wire sono i suoi long seller.
La voce e lo stile
Agli inizi Cohen ha una voce acuta, che qualcuno ha definito “sottile come una lama di rasoio”.
Le sue prime canzoni sono perlopiù voce e chitarra classica. Gli accordi usati sono pochi.
Tre elementi, questi, che però sono plasmati insieme creando una forte suggestione. Con il trascorrere degli anni la sua voce si fa cavernosa, buia, riempiendosi di enigmaticità e di fascino.
I suoi dischi, fino agli anni ’80, sono prettamente acustici (chitarra, piano, archi).
Con Various Position la svolta elettronica, con uso di sintetizzatori e basi ritmiche. Un altro elemento che subentra è la sempre più dominate presenza di voci femminili.
Una volta sentito cantare, non si può più scindere voce e parola scritta. Il suo modo di cantare è asciutto e cadenzato, quasi ipnotico, in modo da rispettare la scrittura del verso. Ogni parola è scandita, declamata. È per questo che quando si legge una sua poesia o quando si ascolta una sua canzone cantata da un altro, è impossibile non associarla immediatamente alla sua voce e al suo stile.
Il suo modo di cantare sul palco, ma anche la dominanza della parola sulla musica, derivano dagli chansonnier francesi (alla Jacques Brel e George Brassens). I suoi testi e gran parte della sua formazione musicale, invece, lo ricollegano alla tradizione country americana, di cui ama spesso cantare alcuni standard.
I temi
Tutta la sua produzione è incentrata su alcuni temi chiave (ricerca della Libertà, della Bellezza, di un Dio), spesso espressi in dicotomie: santo/discepolo, padrone/schiavo, sesso/religione.
Cohen spiega che questi termini non sono l’uno l’opposto dell’altro ma, al contrario, facce di una stessa medaglia. L’amore terreno, carnale, ad esempio, simboleggia quello spirituale, trascendentale. La ricerca di un Dio si esplicita nel rapporto uomo-donna.
Nella canzone Ricordi (Memories), racconta di un giovane studente alla festa di fine anno che corteggia una bellissima ragazza bionda. Alla richiesta di lui di farle vedere il suo corpo, lei risponde che ci sono molte parti da toccare ma non potrà mai vedere ciò che chiede. Alla fine lui ribatte ribadendo la sua fede nel vedere il suo corpo. In questo scambio è evidente il riferimento religioso. “Ho fatto molta strada per la bellezza/Molto ho lasciato dietro/ La pazienza e la famiglia/il mio capolavoro senza firma” (Came so far for beauty)
Riferimento ancor più efficace in una delle sue canzoni manifesto, Hallelujah, che racconta dell’innamoramento di Davide con Betsabea. L’invocazione religiosa (dall’ebraico Loda il Signore) diventa qui simbolico dell’amore trovato: La tua fede era forte ma avevi bisogno di una prova/ avevi visto lei mentre faceva il bagno sulla terrazza/ la sua bellezza e la luce della luna ti avevano sconvolto/ e lei ti ha legato ad una sedia della cucina/ ha infranto il tuo trono ed ha tagliato i tuoi capelli/ e dalle tue labbra ha tirato fuori l’Hallelujah.
L’assenza di Dio, o quantomeno di un risposta tangibile, si manifesta anche attraverso una serie di mancanze, di vuoti: e canto per il capitano/la cui nave non è stata costruita/per la madre confusa/la sua culla è ancora vuota/per il cuore senza compagno/per l’anima senza re/per la prima ballerina/che non può ballare nulla (Heart with no companion). O ancora: Puoi addizionare le parti/ma non avrai la somma/Puoi dare il via alla marcia/mancano i tamburi (The Future). Cohen è quindi il cantore dell’incompiutezza e della sconfitta, giacché l’uomo è ontologicamente imperfetto, quindi può trovare rifugio nell’amore, nel lavoro, nell’idea di Bellezza e, soprattutto, nella piena comprensione del suo stato.
Dopo molti anni vissuti in meditazione, ha subito il forte richiamo della vita comune, normale. Ed è tornato a vivere a Los Angeles. Ha raccontato questo suo ritorno così: Sono quel che sono, e quel che sono/è di nuovo a Boogie Street (Boogie Street – la strada di Singapore che di giorno è un bazar ma di notte è luogo di incontri a luci rosse).
Postilla del 2016
Dal 2010 sono usciti i seguenti album:
Old Ideas (2012)
Popular Problems (2014)
You want it darker (2016)
Tre dischi in 4 anni, per uno che tra un disco e l’altro fece passare anche 9 anni. E 5 anni di tour quasi ininterrotto, in giro per mondo, dal 20018 al 2013. Aveva ritrovato, nell’ultimo tratto di vita, una energia che era stata spesso soffocata dagli affanni dello spirito e della mente. Una pace che, grazie alle sue parole, molti di noi sanno dove trovare, anche se per pochi istanti.