Non c’è incontro peggiore che si possa fare in città. Non tanto sul piano estetico (le canottiere e i pinocchietti per gli uomini, gli stivali infradito con le frange per le donne sono ancora più indigesti), ma su quello filosofico-esistenziale.
Ce lo spiega bene Paolo Sorrentino nel suo bellissimo romanzo, per bocca del grande Tony Pagoda:
“…a quei pigri obesi degli americani che escono di casa in tuta, vanno al lavoro in tuta, rincasano con la tuta e per la vita di casa, ovviamente, sempre la tuta tengono. Fatemi vedere un uomo in tuta e a me mi prende uno sconforto da malato che vaga nella corsia d’ospedale tra barelle e bottigliette d’acqua distillata alla ricerca di un cesso sporco e perennemente occupato. Un degente per strada, questo divento. S’impara in carcere l’odio accanito per la tuta. In quel luogo nel quale tutte le umanità si lasciano andare. Si comincia con la barba di due giorni, si persevera abbandonando un decoro degli indumenti, ed ecco la tuta, si prolunga l’agonia divorando l’anestesia dei canali televisivi, si tocca l’apice lasciandosi cadere in giù con una corda al collo attaccata al tubo della doccia…”
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